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Lonigo, 9 Gennaio 2020
Venti di guerra. O forse no.
Vorremmo iniziare questa analisi innanzitutto dicendo che è stato ucciso un guerriero, ucciso dalle armi vigliacche e “democratiche” degli Stati Uniti d’America.
Il generale Suleimani, comandante delle Guardie della Rivoluzione Iraniana, era un militare che le guerre le ha sempre combattute di persona.
Quasi una figura mistica nella repubblica islamica dell’Iran, è stato per anni condottiero delle operazioni militari iraniane come quelle a sostegno di Assad nella martoriata Siria, nelle azioni a contrasto dell’ISIS nelle zone di confine tra Iraq e Siria che ne hanno sostanzialmente decretato la sconfitta militare.
Quando cade un grande condottiero esso va onorato come tale, e come tale gli va mostrato l’onore delle armi. Quell’onore che le armi automatiche che lo hanno ucciso non possiedono ma che non potranno mai portargli via.
La situazione che si è generata in conseguenza a questo assassinio mirato, alla luce sia del “contrattacco” iraniano sia delle parole di Trump arrivate in serata, sembra riportare nei ranghi tutte le esternazioni minacciose arrivate negli ultimi giorni da ambo le parti.
Ma è poi giusto definire questo attrito come un duello che vede impegnati solamente Stati Uniti ed Iran in una “singolar tenzone”?
La situazione mediorientale sono anni ormai che non può essere analizzata secondo i vecchi schemi “da guerra fredda”.
Numerosi attori, in una logica multipolare (o meglio globalmente unipolare, ma regionalmente multipolare), si ritagliano il proprio spazio, da manipolati o da manipolatori.
In primis gli americani, che dal canto loro proseguono ininterrottamente con gli usuali atti criminali di aggressione, indipendentemente dal colore politico delle amministrazioni che a Washington si avvicendano da decenni. Queste aggressioni hanno diversi scopi, sia di politica interna che di politica estera: in prima battuta l’amministrazione Trump, ad un anno dalle elezioni americane, è ancora alla ricerca della “grande vittoria militare”, come lo fu l’uccisione di Bin Laden per quella Obama o la cattura di Saddam Hussein per la precedente; vittoria che servirebbe anche per disimpegnarsi dalla procedura di impeachment presidenziale in corso che, benché lunga e di probabile fallimento, potrebbe portare ad una non riconferma dell’attuale amministrazione (sebbene la apparente pochezza degli avversari lasci al momento ancora ampi margini di durata). A tal proposito, alcuni esponenti “trasversali” della politica americana (tipo Joe Lieberman, ex senatore USA) stanno già facendo appello all’opposizione per mostrare un sostegno incondizionato al Presidente.
In secondo luogo a settembre un attacco partito dallo Yemen ai pozzi di petrolio sauditi – da sempre fornitori privilegiati per gli Stati Uniti – ha reso i pozzi iracheni strategicamente rilevanti e ha probabilmente determinato l’alzarsi della tensione nella zona (si noti che entrambi gli episodi di guerra non sono avvenuti nei territori nazionali dei contendenti ma nel già martoriato Iraq) e può giustificare un rafforzamento delle forze americane sul campo (già sulla via dello stanziamento ulteriori 3500 uomini).
Poco più in là, la situazione siriana ha portato la creazione di un quadro in cui, oltre al legittimo governo siriano, giocano bellamente le loro partite potenze emergenti come la Turchia, potenze militari come la Russia, milizie islamiche come i rimasugli dell’ISIS, tutti impegnati in una miriade di conflitti locali (Kurdistan, Nord della Siria, etc.) che paiono destinati a durare ancora a lungo, quindi una presenza rafforzata degli Stati Uniti in zona può fungere da ago della bilancia per l’evolversi delle varie situazioni locali.
Tutte queste sfaccettature delineano scenari non nuovi, in cui arbitrariamente il bullo americano delinea lo “Stato canaglia” di turno, lo aggredisce e lo riporta all’età della pietra, calpestando popoli, tradizioni e culture, azzerando tutto sotto la bandiera a “dollari e strisce”.
Scenario che ovviamente, come numerose volte in passato, ci vede assolutamente in opposizione all’aggressione americana ed al fianco delle nazioni illegittimamente private della sovranità.
Tuttavia va detto che l’Iran, che per alcune scelte di politica estera, nonché per la sua storia, merita sicuramente dei plausi, nell’attuale scenario mondiale spesso ha giocato su più tavoli intessendo proprio con i suoi più grandi nemici relazioni e trattative che spesso vanno a scapito di cause nobili e condivisibili, ad esempio quella nazionale palestinese.
Per questo motivo pensiamo che tutta l’operazione di contrattacco faccia il paio con quella d’attacco, come una grande, immensa e sanguinaria operazione di propaganda.
Lo smorzarsi dei toni in queste ultime ore, confermato immediatamente dai mercati petroliferi, da forse adito proprio a questo sospetto.
Infine facciamo notare che, come in tutto quello che abbiamo descritto, manca qualsiasi riferimento al coinvolgimento, anche solo marginale, dell’Europa.
Riteniamo gravissimo ed intollerabile come gli Stati europei, privi di una qualsivoglia velleità politica unitaria, e possessori di una propria forza militare inesistente (anche se potenzialmente assai rilevante) non siano presenti nello scenario per difendere i propri interessi (questo scenario di nuove sanzioni all’Iran imposto immediatamente da Trump di fatto annulla qualsiasi barlume di accordo sia con la Russia che con l’Europa).
L’Europa viene spinta ulteriormente ai margini della politica mondiale.
Incapace di darsi un ordinamento politico e militare, incapace di perseguire quel sovranismo continentale che la storia le riserva, l’Europa si barcamena, con diplomazia da operetta, nel provare a derimere la situazione libica, passata colpevolmente in secondo piano, mentre le logiche sopra descritte la escludono dallo scacchiere globale. La strada per uscire dalla storia è tristemente ben avviata…
Il portavoce
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